Il cardellino
Review by Wuthering Heights
Oggi voglio parlarvi della mia ultimissima lettura: Il cardellino di Donna Tartt.
Come alcuni di voi sapranno - poiché mi è capitato spesso e
volentieri di citarlo - ho particolarmente apprezzato Dio di illusioni, primo lavoro della autrice. E l’ho apprezzato
talmente tanto che ho impiegato ben due anni prima di sentirmi pronta, e
affrontare il romanzo con cui la Tartt ha vinto il Premio Pulitzer per la
narrativa nel 2014.
Amatissimo e molto famoso anche sui social, Il cardellino è
un lungo e corposo romanzo di 892 pagine. Un big book e, senz’altro, anche
molto “sad book”. Termini, questi, che spopolano nelle descrizioni di Instagram
ma che sono davvero pregnanti riguardo questo intenso romanzo.
Ma procediamo con una breve disanima del titolo - che ammetto
essere stato elemento di grande attrattiva per me. Il cardellino è, infatti, un
dipinto del 1654 capolavoro del pittore olandese Carel Fabritius, ed è il vero protagonista del libro.
Passiamo alla trama.
New York. Il tredicenne
Theo Decker viene travolto dalla tragedia della morte di sua madre, quando un
giorno entrambi sono coinvolti nell’esplosione di una bomba all’interno di un
museo. Il ragazzo, affezionatissimo alla sua giovane madre con cui condivide un
rapporto speciale, cade all’interno di una spirale di terrificante dolore e
solitudine. Ma qualcosa di inatteso e
incredibile è accaduto nel museo, un vecchio sconosciuto morente gli ha
indicato qualcosa: Il cardellino di Fabritius.
Piccolo spoiler: Theo prende con se il dipinto.
Da questa scelta verranno tracciate tutte le trame che si
dipanano all’interno del romanzo.
La narrazione è in prima persona, e questa tecnica secondo me
consente sempre di far sentire al lettore più vicino il protagonista.
Inevitabilmente si viene coinvolti nelle emozioni e negli accadimenti con
maggiore slancio. Un narratore alle prime armi potrebbe smarrirsi
facilmente, questo non è il caso di Donna Tartt.
La prosa della Tartt non è solo ben fatta, ma è evidente il
lavoro di costruzione che le è costato scrivere Il cardellino. Non è difficile
intuire che ogni parola, espressione e descrizione, abbiano un significato
scelto con attenzione quasi chirurgica.
Questo è il marchio dei professionisti, e di una autrice che ha
affermato di voler scrivere un romanzo ogni dieci anni.
Il libro inizia in una New York ostile, prosegue nella
sabbiosa e ancor più insidiosa Las Vegas. Il piccolo Theo è costretto a seguire
l’unico genitore rimasto, un padre difficile e pieno di contrasti. E sono stata
generosa. Eppure Las Vegas dona al ragazzo un amico; è qui che entra in gioco
il personaggio che io reputo il migliore del libro, Boris. Misto di etnie e
idiomi, solenne bestemmiatore in più lingue, rabbioso all’occorrenza ma anche
stranamente amorevole, Boris diviene amico del nostro protagonista e lo rimarrà
sempre. Nel bene e nel male, concetto questo che scopriremo essere molto
relativo.
Il cardellino si rivela essere un grande libro di
peregrinazioni interiori ma anche fisiche. Viaggiamo attraverso l’America,
finiamo ad Amsterdam dove le percezioni sensoriali della città sui canali sono
quasi insopportabili. Sì, perché si intrecciano ai più forti dolori di Theodor.
Ai suoi drammi psicologici e morali.
Romanzo di formazione quindi, ma anche romanzo in cui, pur
nei momenti più bui, c’è sempre una luce a risplendere.
La luce, come avrete capito, è quella del dipinto.
Una sorta di amuleto, ma anche di sogno, di strada tracciata
tra due mondi, rimane sempre al centro dei pensieri. Tra i tanti che mi sono
ritrovata a cogliere, questo è forse il più bello: l’arte, quella vera, muove
il mondo e i destini degli uomini, traccia una strada sottile tra l’artista e
colui che è disposto a cogliere l’arte.
“Oltre quelle distanze
impercorribili – tra l’uccello e il pittore, il quadro e lo spettatore – sento
con fin troppa chiarezza ciò che il quadro dice a me, uno pss in un vicolo,
come direbbe Hobie, personale e specifico, che riverbera attraverso i secoli.
“
Sebbene sia un romanzo molto drammatico, triste, in cui non mancano
descrizioni anche intense, alla fine sono riuscita a coglierne il messaggio.
Un grido attraversa queste pagine, e non è un lamento di
dolore. Ho sentito distintamente una canzone dedicata alla bellezza. Sì, quella
bellezza che Donna Tartt aveva già omaggiato, forse in modo ancora più macabro,
in Dio di illusioni. E lo faceva dicendo “La bellezza è severa!”
“ Perché tra la realtà
da un lato, e il punto in cui la mente va a sbattere contro la realtà, esiste
uno spazio sottile, uno spicchio d’arcobaleno da cui origina la bellezza, il
punto in cui due superfici diverse tra loro si mescolano e si confondono per
procurare ciò che la vita non ci dà: e questo è lo spazio in cui tutta l’arte
prende forma, e tutta la magia. E – aggiungerei – anche tutto l’amore. ”
Un filo sottile unisce i due romanzi della Tartt, la bellezza
appunto.
Personaggi validissimi, ben strutturati, e bellissimi picchi
in cui l’arte – l’antiquariato – prende il sopravvento. E le ultime dieci
pagine, bellissime. Valgono, secondo me, l’intero romanzo.
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