giovedì 7 settembre 2017

Quattro grandi libri sotto le 150 pagine: Consigli di lettura!


Quattro romanzi di quattro grandi autori
( non più lunghi di 140 pagine! )
Reviews by Wuthering Heights 









Il mese di agosto è stato un grande mese di letture, e mi è servito per fare due belle scoperte.
Per prima cosa ho sempre evitato di fare una programmazione delle letture; mi è sempre piaciuto scegliere al momento, spinta dall’ispirazione, senza pormi obbiettivi importanti da raggiungere. 
La seconda scoperta è relativa alla programmazione delle letture. Ho scelto, questo mese, di leggere alcuni piccoli libri che riposavano da troppo tempo nella mia libreria.

Da sempre l’aggettivo capolavoro viene associato ai libri che superano le cinquecento pagine. “Sono i lunghi libri che fanno pensare anche di essere grandi libri.”  
I miserabili, I fratelli Karamazov, Moby Dick. E tanti altri di uguale spessore e peso. 
Non è altro che un luogo comune. 

Se anche leggere un libro lunghissimo come Moby Dick può dare delle soddisfazioni enormi, ci si può affidare anche ai piccoli libri. Libri che hanno di piccolo solo lo spessore effettivo. Libri che non superano le 140 pagine. 

All’inizio del mese di agosto ne ho scelti quattro, e oggi li voglio consigliare a tutti coloro i quali necessitano di una grande lettura senza avere il tempo ( o la pazienza ) di tenere dietro ad un romanzo più corposo.

Tre degli autori di cui parliamo sono dei premi Nobel; il quarto è considerato padre del romanticismo francese. Chi sono?
Gabriel Garcia Marquez, John Steinbeck, Thomas Mann e Victor Hugo.

Ma andiamo con ordine.




Gabriel Garcia Marquez, autore colombiano, premio Nobel per la letteratura nel 1982, è uno degli esponenti più importanti del realismo magico — una corrente che non mi ha mai entusiasmato molto.

Eppure, da quando ho preso in mano Cronaca di una morte annunciata non ho avuto dubbi. E’ un capolavoro assoluto, un gioco mirabolante di magia, mistero e morte.

Il libro si apre con una certezza: “Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5.30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui sarebbe arrivato il vescovo.”
Come mai, se viene così platealmente annunciato che il protagonista della storia morirà, che non c’è nessuna via di fuga, allora il libro è così misterioso?
Il realismo magico implica l’utilizzo di alcuni espedienti narrativi davvero interessanti. Il racconto è imbevuto di una sorta di magia intensa, simile ad una nebbia attraverso cui è impossibile guardare davvero; l’elemento di maggiore fascino, secondo me, sta nel fatto che tutti i personaggi accettano le particolari stranezze dovute a queste ambientazioni come se fossero per loro la normalità.

Il libro di Marquez, che prende vita sulle spiagge caraibiche, è pregno di gesti, misticismi, odori e sapori che coinvolgono talmente tanto il lettore da trascinarlo all’interno del gioco crudele che condurrà alla morte la vittima.
Gli eventi sono raccontati seguendo non solo una pista, non solo una visione, ma si ha l’impressione di vedere la morte — o il sopraggiungere di essa, il che è ancora più inquietante — attraverso gli occhi della moltitudine. Chi è questa moltitudine? Gli amici, i conoscenti, i parenti dell'uomo che verrà ucciso. Tutti loro, in un modo o nell’altro, sanno che gli assassini “hanno affilato i coltelli” ma non fanno niente. Questo assassinio, messo in moto da una menzogna, alimentato dal bigottismo, viene compiuto non solo dai fratelli Vicario — gli assassini — ma da tutti quanti. 
Tragico, misterioso, poetico, trascinante. Un capolavoro capace di perseguitare l’immaginario del lettore per giorni, per settimane.





Totalmente diverso, non solo per lo stile di scrittura, ma anche per i luoghi in cui visse e le influenze che ebbe, è Thomas Mann. Scrittore tedesco nato a Lubecca, ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1929. Qualche tempo fa ho letto i Buddenbrook, forse il romanzo più famoso di Mann, ma ammetto senza riserve di aver preferito di gran lunga La morte a Venezia. 

Snello romanzo di 98 pagine, è ambientato in una Venezia colerica e coperta di nebbia. Il protagonista è Gustav Aschenbach, scrittore di fama mondiale, giunto ai suoi cinquant’anni senza essersi mai abbandonato ai piaceri della vita. L’uomo, una volta giunto nel luogo di villeggiatura, incontrerà un giovinetto di estrema bellezza Tadzio. Diventerà per lui una chimera, un sogno da inseguire e da venerare così profondamente da dimenticare se stesso.

“Ed ecco, in quell’istante Tadzio gli sorrise, d’un sorriso eloquente, confidenziale, carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della propria bellezza — un sorriso un poco contratto dalla vanità dell’aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno di civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante. L’uomo al quale era destinato quel sorriso se lo portò via come un dono fatale.” 

Lo scrittore è tramortito dal sorriso di Tadzio. Corre via, si getta su una panchina, e mormora la formula estrema del desiderio — come scrive Mann, in quel caso anche infame — ti amo. 

Lo stile di Thomas Mann è completamente diverso da quello di Marquez. La prosa è asciutta, riecheggia di richiami ai miti greci. Viene riportato un bellissimo pezzo dal Fedro di Platone.

“Giacché la bellezza, mio Fedro, solo essa è amabile e visibile al tempo stesso; essa è, notalo bene, la sola forma dell’immateriale che noi possiamo percepire coi nostri sensi e che i nostri sensi possono sopportare.” 

La bellezza e la gioventù di Tadzio si contrappongono alla vecchiaia di Aschenbach, e anche alla malattia che dilaga in Venezia. 
E come agli uomini viene spontaneo negare la vecchiaia, nascondere la malattia, in città il morbo viene tenuto nascosto ai turisti fino all’ultimo minuto.

La narrazione è portata avanti da una tensione palpabile; vi si affacciano maschere quasi oscene, come quella dell’attore napoletano, il cui viso è distorto in un ghigno che sembra preannunciare la fine non lontana. 

La grandezza de La morta a Venezia è visibile da qualsiasi punto si guardi. 
La lacerante, dolorosa consapevolezza dell’illusione che lo scrittore ha sempre covato in tutta la sua vita — quella di poter rimanere al di sopra delle passioni e degli impulsi, è la coltellata che penetra più affondo. Nessuno è al di sopra della decadenza, sembra dire Thomas Mann, e nessuno può evitare di cadere.





A questo punto, nel corso della lettura, mi ero già resa conto di aver scelto romanzi che nel titolo avevano tutti la parola morte.
Mi è sembrato giusto continuare con L’ultimo giorno di un condannato ( a morte ) di Victor Hugo.

Hugo, che non ha bisogno certo di presentazioni, è stato uno impegnato attivista contro la pena di morte. Il libro di 108 pagine ne è la prova.

La narrazione ha la forma del diario, ed è proprio questo a rendere lo scritto così acuminato e d’effetto. A narrare è un condannato a morte qualsiasi. Non viene fatto il suo nome, ne vengono dati particolari personali se non qualche elemento che continua comunque a girare nella testa del lettore in modo ossessivo. Si scopre che il condannato ha moglie e figlia — che già lui destina ad una fine atroce una volta rimaste sole — e che proviene da una classe piuttosto agiata, ma che caduto in disgrazia è rinchiuso nel carcere di Bicêtre.  

Un’altra particolarità — la narrazione non è una semplice riflessione del condannato, estrapolata dal tempo e dallo spazio, ma ha luogo all’interno di momenti precisi. Dal momento in cui l’uomo, in carcere, aspetta di essere condotto al processo, per ascoltare l’inevitabile sentenza, sono scanditi quelli che erano, nella Francia reale di Hugo, i parametri che qualsiasi reale condannato a morte doveva seguire. 

E’ così che veniamo a conoscenza delle condizioni delle ultime settimane di vita di un uomo senza scampo.

I momenti che lo separano dalla forca — “che stanno montando per me” — diventano momenti di terrore puro. La morte lo aspetta dietro ogni incubo, dietro ogni minuto di sonno o sguardo che lo sorveglia.

All’interno di questa tristissima eppure lucida epopea, non manca la denuncia contro i lavori forzati. 
Ne I miserabili Jean Valjean è un forzato che sfugge al suo destino, e ne L’ultimo giorno di un condannato, è il condannato stesso che si trova ad assistere, da dietro un posto privilegiato di osservatore, alla pratica con cui i condannati ai lavori forzati venivano incatenati con delle catene da cui non potevano più liberarsi. E allora pensa che è meglio morire piuttosto che essere trattato da bestia in catene.

La forza della scrittura di Hugo è inesorabile.
E’ davvero difficile, nonostante il testo sia così lontano dalla nostra realtà odierna, non lasciarsi coinvolgere. 
Nelle pagine di questo libro c’è un essere umano che urla la disperazione di venire privato della  cosa più preziosa, la vita. Chiunque potrebbe capire questo tipo di disperazione. 
Io sono stata trascinata dalla disperazione, e ho vissuto ogni attimo immaginando ogni particolare sorretta dalla prosa quasi crudele di Hugo. Le notti insonni nel carcere, i dialoghi con il prete. Un prete che consola ogni condannato e ha perso la capacità di consolare.

Il libro è un lavoro di fantasia e non lo è. 
Sopratutto non lo è. 
Penso che sia di una attualità sconvolgente come solo i libri dei più grandi sanno essere.





Ultimo consiglio, Uomini e topi di John Steinbeck.

Scrittore americano tra i più famosi, premio Nobel per la letteratura nel 1962,  mi ha assolutamente affascinata con questo piccolissimo libro non più lungo di 117 pagine.

Siamo in California, nelle calde pianure di Salinas, e due uomini George e Lennie, si stanno dirigendo presso un ranch dove sperano di trovare lavoro e mettere su un gruzzolo.
Sin dalle prime battute veniamo introdotti con stile asciutto nell’interiorità profondamente diversa dei suoi personaggi. George è un uomo sveglio, che brilla di fame di vita, di riscatto, e Lennie un “gigante buono” con degli evidenti problemi mentali. 
I due viaggiano insieme, si capisce subito che George si prende cura di Lennie, e che quest’ultimo gli è affezionato e che guarda a lui come uno stampo per modellare ogni azione, ogni parola e ogni pensiero.

Il sogno del riscatto al centro di Uomini e topi è incarnato dal desiderio di George e Lennie di comprare una fattoria. Un pezzo di terra tutto loro, ove vivere dignitosamente. Senza padroni.

“Dimmi della casa, George.” , supplicò Lennie.
“Certamente, sarà una casetta piccola con una stanza per noi. E una staffetta di terra a pancia, che nell’inverno terremo sempre accesa. Non avremo molta terra, per non dover lavorare troppo. Sei, forse sette ore al giorno. Non ci toccherà più di portare l’orzo undici ore al giorno. E se semineremo un raccolto, ci saremo là noi a ritirarcelo. Sapremo cosa rendono le nostre piantagioni.”
“E i conigli,” disse Lennie fervorosamente. “Io li accudirei. Di’ come farò, George.” 
“Certo, andrai nell’alfalfa e porterai il sacco. Ne raccoglierai un sacco e tornerai a vuotarlo nelle gabbie dei conigli.”
“Allora rosicchierebbero, rosicchierebbero.” disse Lennie, “come fanno sempre. Li ho veduti.”  

Il tema del riscatto sociale è unito a quello della critica contro lo sfruttamento dei poveri e dei neri. 
I ricchi mantengono loro se stessi oltre una sponda dorata che gli altri non possono attraversare e nemmeno sognare troppo allungo. A questo proposito esemplare è il personaggio di Crooks, l’uomo di colore costretto da una vita a stare in solitudine proprio perché nero. 
All’interno della sua abitazione sa benissimo che niente cambierà. Il disincanto di cui è imbevuto contagia anche gli altri, i quali si muovono, per un momento molto breve di beata speranza, all’interno di un mondo difficile e violento. Quella fattoria presso cui George e Lennie hanno trovato lavoro non sarà il trampolino di lancio sperato, anzi.




8 commenti:

  1. Sono d'accordissimo con te, un grande romanzo non deve necessariamente essere anche voluminoso.
    Ho letto alcuni anni fa La morte a Venezia, e grazie alle accurate descrizioni mi sembrava di passeggiare in una cupa Venezia insieme a Gustav.
    Degli altri romanzi di cui hai trattato voglio al più presto leggere Cronaca di una morte annunciata.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Fino a poco tempo fa anche io avevo ceduto a quel luogo comune, grandi romanzi uguale romanzi lunghi, ma sto compiendo un percorso molto gradevole di riscoperta dei classici brevi! Cronaca di una morta annunciata ti piacerà sicuramente, buona lettura!

      Elimina
  2. Ciao, come sempre interessanti i tuoi consigli di lettura!
    Tra questi quattro ho letto Uomini e topi, e La morte a Venezia subito dopo aver visto il film di Visconti.
    Anche se alcuni elementi differiscono dal libro, il senso di turbamento del protagonista e le ambientazioni sono identiche a quelle evocate dalla lettura del romanzo.
    Anche di Uomini e topi ho visto il film (ma stavolta dopo aver letto il libro), la versione del 1992 con un bravissimo Gary Sinise.
    Insomma, da piccoli libri emergono grandi storie e anche ottimi film!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Alessandra, ti ringrazio!
      Il film di Visconti è molto bello, quindi? Devo vederlo anche io al più presto! Venezia suscita un grande fascino su di me, e quella del libro anche di più.
      Ho una bella lista di film da vedere, tratti da libri che ho letto, e adesso si aggiunge pure Uomini e topi.
      Spero proprio di continuare col mio proposito di leggere i piccoli libri.

      Elimina
    2. Si, te lo consiglio assolutamente il film di Visconti.
      Magari a chi non ha letto il libro o non ne conosce la trama potrebbe sembrare lento, ma se ti è piaciuto il romanzo allora amerai anche il film. Anche se è una Venezia colpita dalla peste conserva comunque il suo fascino

      Elimina
  3. Sono molto incuriosita da Gabriel Garcia Marquez, non l'ho mai letto, spero di rimediare :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao! Ti consiglio di iniziare dalle opere più brevi, visto che lo stile di Marquez è molto denso!

      Elimina